26 e 27 febbraio 2017
COMPAGNIA: Maria Laura Caselli
AUTORE: Rachel Corrie – Alan Rickman, Katharine Viner
ATTO UNICO: durata 75’ circa
REFERENTE TECNICO: Maria Laura Caselli, Antonio Ligas
“Mi Chiamo Rachel Corrie” è il titolo di un testo teatrale curato da Alan Rickman tratto dai diari di Rachel Corrie.
Sapete chi è Rachel?
Rachel è una ragazza americana, di Olympia, Washington, che nel 2003 decise di unirsi all’ISM: International Solidarity Movement, movimento palestinese impegnato a resistere all’occupazione israeliana usando i metodi e i principi dell’azione-diretta non violenta.
Poco tempo dopo il suo arrivo a Gaza, Rachel venne brutalmente uccisa da un bulldozer israeliano mentre cercava di difendere la casa di un medico palestinese usando il suo corpo come uno scudo umano. La sua vita venne stroncata a soli 23 anni.
Sapete chi sono io?
Io sono Maria Laura e faccio l’attrice, mi sono diplomata all’Accademia D’Arte Drammatica Silvio D’Amico nel 2006 e da allora giro l’Italia in tournèe con due compagnie: Siciliateatro di Sebastiano Lo Monaco, e Teatro La Pergola di Gabriele Lavia.
Questo è il mio primo progetto indipendente, il primo in cui sarò in scena da sola, il primo che nasce da una mia idea e da un mio desiderio.
Sapete cosa vogliamo fare io e Rachel?
Vogliamo idealmente incontrarci sul palcoscenico per raccontare la sua storia: perché il conflitto israelo-palestinese è ancora di grande attualità, perché quel muro che lei aveva iniziato a veder costruire oggi si staglia alto e deciso per 730 km a rappresentare sempre piu’ l’impossibilità del dialogo tra due popolazioni, e perché ancora c’è bisogno di persone come lei, che abbiano il coraggio di toccare con mano la realtà, accompagnati dalla paura e dalla solitudine, ma presenti dove ce n’è bisogno, ognuno col suo modo.
Note di Regia
Questo spettacolo non nasce con l’obbiettivo di raccontare il conflitto in Medio Oriente e nemmeno di analizzarne le cause: l’idea che lo domina è considerare la guerra come un evento tragico che da sempre assume valore pedagogico per chi la osserva, per chi la vive e soprattutto per chi la subisce – al di là di qualunque sofisma politologico che la neghi o la giustifichi -.
La nostra attenzione si concentra sulle vicende di una giovane fanciulla poco più che ventenne, la quale si ritrova a vivere dall’altra parte del mondo, di conseguenza svestendo gli abiti di una vita piccolo borghese e indossando i panni dell’attivista pacifista.
Rachel Corrie era una di noi, una ragazza della porta accanto, con i problemi che tutti i ragazzi della sua età affrontano quotidianamente o almeno coloro che vivono lontani dai bombardamenti, dalle conseguenti ristrettezze economiche e sociali e dai continui stati di allerta.
La sua vita scorreva apparentemente tranquilla: nessun trauma, nessuna perdita di persone care; camminava per le vie d’Olimpia, cittadina dello stato di Washington, come qualsiasi anonimo essere umano occidentale.
Ma se avessimo avuto modo di conoscerla più profondamente, forse saremmo stati capaci di catturare, dietro quegli occhi appuntiti, qualche guizzo del fuoco di cui parla nei suoi diari.
Attraverso le sua testimonianza scritta ho cercato di far emergere la storia di una vocazione, quella stessa vocazione che nasce nel momento in cui ci si trova davanti ad un dubbio amletico: scegliere di accontentarsi e portare avanti un’ esistenza sottovoce, in armonia col coro di vite che si accontentano e sopravvivono protette dalla bolla di una supposta normalità? O migrare nell’ignoto cercando di ampliare in maniera concreta i propri orizzonti non accettando di cibarsi solo del sentito dire?
La storia di Rachel è la storia di un’eroina, nobile tanto quanto Antigone o Elettra; la sua è una tragedia contemporanea, vissuta con parole meno roboanti di quelle di Eschilo o Sofocle, ma narrata con una dignità ed una grandezza d’animo veramente degni di nota.
Non c’è bisogno di sottolinearne il coraggio, documentato molte volte dai giornali e dai video – copiosamente pubblicati dopo la sua scomparsa nel 2003 – che descrivono nel dettaglio la sua morte, causata da un bulldozer che l’ha travolta mentre difendeva in maniera non violenta una casa che, per ragioni logistiche, doveva essere rasa al suolo, malgrado fosse ancora abitata da una famiglia palestinese.
Ho preferito sottolineare la fragilità e la paura di Rachel e provare a evidenziare la pluralità di sentimenti che sostengono qualsiasi atto eroico dal finale inatteso, perché una ventiquattrenne americana che ascoltava i Magnetic Fields e viveva con ironia le sue delusioni d’amore, non aveva la men che minima intenzione di morire schiacciata sotto chili e chili di terra.
Lei desiderava far ardere il suo fuoco e condividere la sua vita con gli altri: già da bambina aveva compreso di non appartenere agli Stati Uniti e probabilmente crescendo non aveva più necessità di una città da chiamare casa: Rachel aveva scelto, ma più giustamente aveva compreso che Casa era il nome da attribuire non al luogo che la ospitava, ma alla famiglia che divideva il cibo con lei, ai bambini coi quali spesso giocava, agli amici conosciuti dall’altra parte dell’oceano, al popolo che le offriva il meglio dalla propria civiltà, iniziandola alla vita vera.
Ogni elemento scenico rimanda a luoghi, eventi, relazioni e legami con persone conosciute nell’arco della sua breve vita: Da Olimpia a Rafah.
I diari sono un percorso, un romanzo di formazione, laddove l’eroe compie la sua evoluzione passo dopo passo, in questo specifico caso trasformandosi in una donna che al contempo non smette di osservare il mondo con l’innocenza di una bimba di dieci anni, piena di speranze e di sogni da realizzare.
Maria Laura Caselli incarna il mondo rutilante di Rachel Corrie, movimentando lo spettacolo non solo col suo corpo e la sua voce, ma riformulando la conformazione dello spazio scenico attraverso spostamenti di scatole opportunamente decorate, simbolo dei ricordi accumulati.
I parallelepipedi di cartone cambiano il prospetto della scena tanto quanto matura l’orizzonte conoscitivo di Rachel che, col monologo finale, offre una summa del tutto personale sugli effetti disastrosi della guerra in Palestina.
Antonio Ligas